Il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, Giuseppe Milanese, interviene sul nuovo numero dell’autorevole magazine Vita, testata di riferimento del Terzo settore
Dall’amministratore della cosa pubblica è lecito attendersi responsabilità perché non vengano disperse le buone cose ammonticchiate nella passata legislatura: buone nelle intenzioni, ma ad oggi prive di sbocchi concreti. Mi riferisco soprattutto all’assistenza primaria, per decenni argomento di cerchie carbonare e a causa del Covid invece ascritto quale tema di primaria importanza nelle agende di Governo e Parlamento, oltreché nel dibattito pubblico. L’argomento è noto: il Servizio sanitario nazionale, originariamente concepito come ospedalocentrico (orrendo termine che identifica i nosocomi come luoghi esclusivi della cura), ha l’impellenza di virare verso la casa dei pazienti, coniando un nuovo paradigma di assistenza. In soldoni: sceverando le acuzie (da curare negli ospedali) dalle cronicità (da gestire a domicilio). La pandemia ha funzionato da catalizzatore, ma i fattori erano già sul tavolo: un’Italia che invecchia (età media 45,9 anni) e ha una lunga aspettativa di vita (82,4 anni) a fronte di cronicità e non autosufficienze letteralmente dilaganti. Per valutare l’effettivo bisogno assistenziale a cui dare risposta, va considerato il divario tra il profilo del paziente prefigurato nel 1978, anno di istituzione del Ssn, e quello attuale: ieri si trattava di un giovane—adulto tra i 45 e i 60 anni, affetto da una sola patologia, più spesso acuta e dal decorso relativamente breve, oggi si ha a che fare con un anziano over 75, con almeno tre patologie in condizioni croniche. Parliamo di una platea di quasi 4 milioni di non autosufficienti, per i quali l’erogazione di assistenza domiciliare oggi è miserrima (in media meno del 3%) e con un divario significativo tra le regioni.
In Germania, la cifra sfiora il 16%. Il Pnrr, accolto come la manna, al momento in realtà nella programmazione delle risorse appare piuttosto come un poco lungimirante investimento in edilizia sanitaria (case e ospedali di comunità) a fronte di questioni che meriterebbero ben altra visione. Mi riferisco anzitutto ad una prospettiva di sistema che meglio inquadri l’asse dell’intervento assistenziale, includendovi il territorio come luogo di pari dignità rispetto all’ospedale. Ma penso anche alla necessità di reclutamento di personale specialistico (la carenza di medici e infermieri è assillo quotidiano), introducendo la figura dell’operatore socio-sanitario specializzato, intermedia tra Oss e infermiere, utile sopperire tempestivamente ad esigenze concrete e a produrre occupazione (si prevederebbero 100mila nuovi posti di lavoro). Tutto ciò anche per eludere il limite dell’insostenibilità economica — già sul medio periodo — di una riforma fondata pressoché esclusivamente sul mattone e non sulle persone. Per una prospettiva coerente che preveda il «continuum assistenziale», una volta esclusa l’opzione del ricovero ospedaliero, ora per le singole prestazioni (centri diurni e modelli di residenzialità leggera), ora per la presa in carico di bisogni complessi (Adi, residenze sanitarie assistenziali finalmente riformate e uniformate sull’intero territorio nazionale, Sad), il modello virtuoso è sotto ai nostri occhi. È il partenariato tra sistema pubblico e impresa cooperativa, già realizzato a macchia di leopardo per l’impulso virtuoso di regioni o aziende sanitarie e soggetti del Terzo settore che hanno saputo interpretare il principio di sussidiarietà secondo la lettera e lo spirito della Carta Costituzionale (in particolare nella triangolazione tra gli articoli 32, 45, 118). Il mercato sanitario, per sua natura e per la piega presa nell’ultimo periodo, rischia di far lievitare l’offerta speculativa, alimentare le disuguaglianze, indebolire la coesione sociale. Proprio l’alleanza tra Stato e Terzo settore interverrebbe quale argine su quelle faglie, prevenendo derive privatistiche, intercettando bisogni assistenziali autentici, coniando soluzioni originali, facendosi carico delle fasce più deboli del tessuto sociale. In questo senso, la Legge delega sulla non autosufficienza rappresenta un lascito fondamentale al nuovo governo, di cui cogliamo primi segnali incoraggianti, come di chi non intende sprecare tempo cruciale.
Giuseppe Maria Milanese
Scarica e leggi l’articolo in formato pdf pubblicato su Vita Magazine – dic.22/gen.23