Il presidente Milanese è intervenuto sul numero di maggio di Panorama della Sanità, mensile dedicato all’analisi dei sistemi di welfare
Trae spunto dalla lettura de “La cura è relazione – storie di assistenza domiciliare”, libro dello scrittore cattolico Fabio Cavallari, il nuovo intervento del presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, Giuseppe Milanese, ospitato nelle pagine del numero di maggio di Panorama della Sanità. Una narrazione di senso dell’assistenza domiciliare in cui la parola relazione diventa la chiave di lettura ed anche la mancata fonte di ispirazione per i legislatori. Scrive Milanese: “Dodici storie, dodici malati, dodici famiglie: attraverso una scansione metodica, quasi i rintocchi di un orologio, Cavallari compie un viaggio realistico eppure immaginifico. Nel duplice significato di occasione di meraviglia e di ispirazione. La meraviglia non è scontata, come sempre accade nei viaggi che attraversano il dolore: eppure ne è il sale costituente e proprio perché il discorso di questo dolore (curarlo nel senso di maneggiarlo, ma anche di ribaltarlo) sta in piedi grazie al concetto di relazione” che “diventa cura se e solo se le due polarità in campo, la persona da curare e la persona che cura, diventano due polarità definitivamente in gioco. Se chi porta la cura (quanto è sgradevole il termine «caregiver»!) viene a sua volta «curato» da chi era nelle condizioni di dover essere curato. Tale reciprocità, che mi piace leggere come «comunità» a due, è possibile soltanto in un luogo accogliente, intimo, confidenziale, caldo: qual è la casa. Per ragioni materiali (la praticità della dimestichezza) e per ragioni immateriali (la custodia di sentimenti che attingono a biografie individuali e familiari, ad esempio). Se ora è più comprensibile la possibilità di meravigliarsi, cioè di nutrirsi di una meraviglia annidata addirittura tra le grinze dell’esistenza, è invece incomprensibile che la narrazione dell’assistenza domiciliare (anche) come amorevolmente raccontata da Cavallari non abbia costituito una fonte di ispirazione o una forma di influenza. Per i legislatori, anzitutto, che troppo spesso hanno scambiato la torre d’avorio delle aule parlamentari per la trincea della vita quotidiana. Ma, più che affliggerci per il passato, vogliamo intrigarci per il futuro: e noi sappiamo che quel futuro è ora”.
Di seguito la versione integrale dell’articolo del presidente Milanese su Panorama della Sanità di maggio
Un mio collaboratore, tra i più recenti ed evidentemente troppo zelante, si è preso la briga di «googlarmi», cercando di ricostruire le mie attività pubbliche degli ultimi anni. Occupazione di per sé già sufficientemente inutile, con l’aggravante che costui ha concluso – porgendomi l’esito della sua ricerca con opportuno garbo – che dico sempre le stesse cose.
Ora, escludendo (e non soltanto per autodiagnosi) che si sia trattato di una coazione a ripetere tipica delle sindromi da declino cognitivo, mi viene piuttosto da pensare di essere caduto in un tranello tipicamente italiano o, si parva licet, evangelico. Non mi compiaccio affatto che i miei interventi nel campo della cooperazione sociosanitaria passino per la «vox clamantis in deserto», non mi garba né che messaggi acclaratamente di buon senso restino inascoltati, né tantomeno che la condizione del dibattito pubblico somigli – o così sia stato negli ultimi tempi – ad una landa desolata. È vero, a ripercorrere il mio impegno non soltanto istituzionale ma forse la mia stessa vita adulta, ho battuto sempre su uno stesso tasto. Che poi era quello di assicurare dignità alla persona umana, soprattutto quando piegata da fragilità e vulnerabilità. Sono consapevole che per la maggior parte delle occasioni le mie parole, che poi solo parole non erano, perché scavate nel solco di una larga impresa di persone e lavoro per trent’anni, siano andate disperse nel vento. Ma capisco anche che forse era giusto così, perché le condizioni per una evoluzione del sistema non erano mature.
Oggi, catalizzate dalla tempesta globale della pandemia, si sono create le premesse perché alcune cose cambino in concreto, intendo nel sistema della Salute nazionale, e sono ragionevolmente convinto che di qui a pochi mesi molti aspetti miglioreranno. Nel frattempo, anche per sottrarmi all’accusa di prolissità, provo a cambiare mestiere, a sgolarmi di meno, a dedicarmi a un più leggiadro impiego. Come, per esempio, quello di suggerire e magari regalare libri.
Ne ho letto di recente uno, con il colpevole ritardo di 3 anni rispetto alla sua pubblicazione, con cui dovrebbero misurarsi tutti coloro che in qualche modo hanno a che fare con l’assistenza ad anziani e disabili. Il titolo vale un programma di Governo: “La cura è relazione”, sottointestato “storie di assistenza domiciliare”. Il suo autore è Fabio Cavallari, scrittore cattolico (non lo preciso a caso) e amorevole (anche questo non è detto a caso). Il libro, cito dall’esergo, «è una narrazione di senso dell’assistenza domiciliare, le cui storie vogliono proporre il racconto delle pratiche di accoglienza. Modalità e percorsi che vedono la casa, il domicilio, come luogo della cura. Uomini e donne, giovani e anziani, che si incontrano, si raccontano, compiono assieme, dentro una reciprocità non scontata, passi condivisi, gesti che costruiscono la comunità».
Dodici storie, dodici malati, dodici famiglie: attraverso una scansione metodica, quasi i rintocchi di un orologio, Cavallari compie un viaggio realistico – letteralmente, perché costringe all’immersione in una realtà dura da masticare – eppure immaginifico, e come tale suggestivo. Nel duplice significato di occasione di meraviglia e di ispirazione. La meraviglia non è scontata, come sempre accade nei viaggi che attraversano il dolore: eppure ne è il sale costituente e proprio perché il discorso di questo dolore (curarlo nel senso di maneggiarlo, ma anche di ribaltarlo) sta in piedi grazie al concetto di relazione. Anche qui occorre non perdere pezzi: la relazione è compiuta se è biunivoca, se vale come associazione, come legame dinamico. E quindi la relazione diventa cura se e solo se le due polarità in campo, la persona da curare e la persona che cura, diventano due polarità definitivamente in gioco. Se chi porta la cura (quanto è sgradevole il termine «caregiver»!) viene a sua volta «curato» da chi era nelle condizioni di dover essere curato. Tale reciprocità, che mi piace leggere come «comunità» a due, è possibile soltanto in un luogo accogliente, intimo, confidenziale, caldo: qual è la casa. Per ragioni materiali (la praticità della dimestichezza) e per ragioni immateriali (la custodia di sentimenti che attingono a biografie individuali e familiari, ad esempio).
Se ora è più comprensibile la possibilità di meravigliarsi, cioè di nutrirsi di una meraviglia annidata addirittura tra le grinze dell’esistenza, è invece incomprensibile che la narrazione dell’assistenza domiciliare (anche) come amorevolmente raccontata da Cavallari non abbia costituito una fonte di ispirazione o una forma di influenza. Per i legislatori, anzitutto, che troppo spesso hanno scambiato la torre d’avorio delle aule parlamentari per la trincea della vita quotidiana. Ma, più che affliggerci per il passato, vogliamo intrigarci per il futuro: e noi sappiamo che quel futuro è ora.
Giuseppe Maria Milanese